Appello per il clima dal mondo delle imprese italiane: gli investimenti europei siano più ambiziosi e adeguati alla sfida

Il clima non può attendere: è il momento del fare. Cento esponenti di importanti imprese e associazioni di impresa italiane lanciano un appello per rendere gli investimenti europei più ambiziosi e adeguati alla sfida di una transizione ecologica e climatica  che poggia su tre capisaldi: ambizione climatica per aumentare la quota di finanziamenti dedicati al clima del Recovery Fund, criteri climatici stringenti per indirizzare gli investimenti, una lista di esclusionedelle attività anti-clima da non finanziare.

L’ appello è rivolto ai parlamentari Italiani, ai rappresentanti italiani in Parlamento Europeo e ai membri del Governo italiano per sostenere che le proposte europee per il clima e l’ambiente siano rese più incisive, in vista della negoziazione relativa alla versione finale del pacchetto di ripresa europeo post Covid, prevista per il mese di novembre.

La transizione verso un’economia ambientalmente sostenibile e climaticamente Neutrale – si legge nell’ appello- rappresenta una sfida epocale che cambierà il sistema energetico e i modelli di produzione e consumo in tutti i settori”.

Le tre direttrici indicate nell’ appello prevedono in particolare:

  1. Ambizione climatica: per portare dal 37% al 50% la quota di investimenti del Recovery and Resilience Facility – il più importante strumento di finanziamento del pacchetto Next Generation EU – destinati a progetti favorevoli al clima, sia per realizzare il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 e puntare sulla neutralità climatica al 2050 che per contribuire a mobilitare i 350 miliardi di euro all’anno di investimenti per il clima e l’energia a livello europeo, stimati dalla Commissione Europea;
  2. Criteri climatici per gli investimenti: adottare una metodologia chiara per riconoscere gli investimenti favorevoli al clima, come quella definita dal Regolamento europeo per la “Tassonomia per la finanza sostenibile”;
  3. Una “lista di esclusione”: introdurre una lista di attività economiche che non possono accedere ai finanziamenti del Recovery and Resilience Fund perché incompatibili con il taglio delle emissioni al 2030 e con l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050.

Questo appello italiano si sposa con numerose iniziative simili, attualmente in corso in Europa, promosse dalla comunità civile e dal mondo economico, e segue il solco tracciato dal Manifesto per un green deal, firmato nello scorso Giugno da 110 rappresentanti del mondo delle imprese.

“Puntiamo – ha detto Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile– ad avere un buon piano per la ripresa quindi ad evitare che, da una parte, si spenda per tutelare il clima e l’ambiente e, dall’altra, si finanzino, con le risorse europee, anche misure che danneggino il clima e l’ambiente. Gli investimenti nelle  misure per il clima  vanno aumentati  perché hanno anche un grande potenziale di trascinamento economico e occupazionale in vari settori: della produzione di energia rinnovabile, del risparmio energetico negli edifici e nell’industria con l’economia circolare, nel cambiamento per una mobilità più sostenibile. Senza trascurare di finanziare anche misure di adattamento climatico che riducano la vulnerabilità delle città alle alluvioni e alle ondate di calore”.

#senonoraquando?

Comunicato stampa Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile

Ufficio Stampa

Federica Cingolani federicacingolani@gmail.com  cell. 335 1329316

Gabriella Guerra gabryguerra@gmail.com cell 339 2785957

 

Testo dell’appello:

APPELLO PER IL CLIMA DAL MONDO DELLE IMPRESE

Rendere gli investimenti europei adeguati alla sfida di una transizione ecologica, climatica e socialmente sostenibile

Gentili membri del Parlamento Europeo, rappresentanti del Governo italiano e parlamentari,

la transizione verso un’economia ambientalmente sostenibile e climaticamente neutrale rappresenta una sfida epocale che cambierà il sistema energetico e i nostri modelli di produzione e consumo in tutti i settori. I pacchetti di stimolo per la ripresa dalla recessione causata dalla pandemia da Covid-19, come ribadito in sede europea, devono dedicare una parte adeguata dei finanziamenti ai rilevanti investimenti necessari per la transizione alla neutralità carbonica e non devono danneggiare il clima e l’ambiente.

Per questo, in vista della negoziazione relativa alla versione finale del pacchetto di ripresa europeo post Covid, prevista per il mese di novembre, vi chiediamo di sostenere che le proposte europee per il clima e l’ambiente siano rese più incisive:

  1. Ambizione climatica: portare dal 37% al 50% la quota di investimenti del Recovery and Resilience Facility – il più importante strumento di finanziamento del pacchetto Next Generation EU – destinati a progetti favorevoli al clima, sia per realizzare il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 e puntare sulla neutralità climatica al 2050 che per contribuire a mobilitare i 350 miliardi di euro all’anno di investimenti per il clima e l’energia a livello europeo, stimati dalla Commissione Europea;
  2. Criteri climatici per gli investimenti: adottare una metodologia chiara per riconoscere gli investimenti favorevoli al clima, come quella definita dal Regolamento 2020/852 per la “Tassonomia per la finanza sostenibile”;
  3. Una “lista di esclusione”: introdurre una lista di attività economiche che non possono accedere ai finanziamenti del Recovery and Resilience Fund perché incompatibili con il taglio delle emissioni al 2030 e con l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050.

Se non ora quando? È il momento delle scelte e della responsabilità!

Chiediamo che, per raggiungere l’obiettivo condiviso di contrasto alla grave crisi climatica in corso, si adottino misure credibili e quindi adeguatamente finanziate.

 

Firmatari:

Catia Bastioli (Amministratore Delegato, Novamont), Francesco Starace (Amministratore Delegato, ENEL), Edo Ronchi (Presidente, Fondazione per lo sviluppo sostenibile), Andrea Illy (Presidente, Illycaffé), Chiara Bigioni (Responsabile Investimenti e Sviluppo, Acque Uliveto e Rocchetta), Renato Boero (Presidente, Iren Group), Luca Bettonte (Amministratore Delegato, ERG), Maria Paola Chiesi (Shared Value & Sustainability Director, Chiesi farmaceutica), Francesco Mutti (Amministratore Delegato, Mutti), Antonio Lazzarinetti (Presidente Esecutivo, Itelyum), Nicola Monti (Amministratore Delegato, Edison), Roberto Sancinelli (Presidente, Montello), Michaela Castelli (Presidente, ACEA), Agostino Re Rebaudengo (Presidente, Asja ed Elettricità Futura), Alessandra Barocci (Delegato Ambiente e Sostenibilità, Acciaierie Arvedi), Davide Bollati (Presidente, Davines), Marco Peruzzi (Presidente, E2I energie speciali), Ignazio Capuano (Amministratore Delegato, Burgo Group), Alessandra Astolfi (Group Brand Manager, IEG), Oscar di Montigny (Chief Innovability & Value Strategy Officer, Mediolanum), Tomaso Tommasi di Vignano (Presidente Esecutivo, Gruppo Hera), Andrea Zaghi (Direttore Generale, Elettricità Futura), Filippo Brandolini (Vice Presidente, Utilitalia), Luca Ruini (Presidente, Conai), Matteo Del Fante (Amministratore Delegato, Poste Italiane), Giovanni Teodorani Fabbri (Direttore Generale, FaterSmart), Andrea Gibelli (Presidente, Ferrovie Nord Milano spa), Carlo Montalbetti (Direttore Generale, Comieco), Giancarlo Morandi (Presidente, Cobat), Paolo Tomasi (Presidente, Conou), Marco Versari (Presidente, Assobioplastiche), Danilo Bonato (Codirettore, Erion), Salvatore Barone (Presidente, Castalia scpa), Andrea Fluttero (Presidente, FISE Unicircular), Chicco Testa (Presidente, FISE Assoambiente), Marina Stella (Direttore Generale, Confindustria Nautica), Simone Togni (Presidente, ANEV), Giovanni Corbetta (Direttore Generale, ECOPNEUS), Tommaso Campanile (Presidente, CONOE), Massimo Centemero (Direttore Generale, CIC), Ezio Esposito (Presidente, ASSOREM), Walter O. Righini (Presidente, FIPER), Dario Di Santo (Direttore, FIRE), Walter Regis (Presidente, ASSORIMAP), Marcello Cecchetti (Presidente CDA, Consorzio Biofuels Net), Luciano Bazzato (Presidente, Associazione FIRI), Marco Luigi Cipriani (Amministratore Unico, CORE – Consorzio Recuperi Energetici – srl), Antonio Borbone (Presidente, ANGAM), Giuseppe Bratta (Presidente, La Nuova Energia), Cosimo Damiano De Benedittis (Direttore Generale, CONIP), Bruno Rebolini (Presidente, CDC RAEE), Carlo Belvedere (Segretario Generale, Ascomac Confcommercio Imprese per l’Italia), Massimo Medugno (Direttore Generale, ASSOCARTA), Rossana Revello (Presidente, Chiappe Revello Ass.ti srl), Roberto Coizet (Presidente, Edizioni Ambiente), Camillo Ricci (Amministratore Delegato, Epr comunicazioni), Eric Ezechieli (Amministratore Delegato, Nativa), Susanna Martucci Fortuna (CEO & Founder, Alisea srl Società Benfit), Emanuele Plata (Presidente, Planet Life Economy Foundation), Isabella Goldmann (Consigliere Delegato, Goldmann & Partners Società Benefit), Carlo Degano (Board Director, Hill Knowlton Strategies Italy), Enrico Morigi (Titolare, Studio Legale Picozzi & Morigi), Marco Frey (Presidente, Global Compact Network Italia), Roberto Cavallo (Amministratore Delegato, ERICA soc. coop.), Marco Salogni (Presidente, Chiari Servizi srl), Federico Garcea (CEO & Founder, Treedom), Giuseppe Lanzi (CEO, Sisifo srl e IN.RE.DEV), Primo Barzoni (Presidente, Palm spa), Glauco Casagrande (Presidente, Zero Energy srls), Vincenzo Moramarco (Amministratore Unico, ECOPLEN srls), Leo Pedone (CEO, BioMat Canapa – Pedone Working), Maurizio Seri (Presidente, Gruppo LFI spa), Cristiano Spillati (Managing Director, Limes Renewable Energies), Daniele Testi (Presidente, SOS – Logistica), Antonio Travaglini (Presidente, Publiservizi spa), Dario Cingolani (Presidente CDA, ATDUE trasporti srl), Duccio Dorin (CEO, Frigel Corporate Team), Pierluigi Fusco Girard (Amministratore Delegato, Linificio e Canapificio Nazionale srl), Antonino Geraci (CEO & Founder, Mobilitys srls), Marco Nori (Amministratore Delegato, Isolfin spa), Christof Stork (Director & Country Manager Italy, DNV GL – Energy), Attilio Piattelli (Amministratore, SunCity srl), Gianluca Verasani (Presidente, Gruppo AIMAG spa), Marco Baresi (Institutional Affairs and Marketing Director, Turboden), Massimo Vaccari (Presidente, La Filippa), Davide Picciafuoco (Amministratore, Green Energy Service srl), Antonella Mazzocchia (CEO, Fratelli Mazzocchia spa), Fabrizio Garavaglia (Co-founder, New Vision), Nicolas Meletiou (Managing Director, ESO Società Benefit srl), Fabio Magnoni (Direttore Generale, Rampini Carlo spa), Sebastiano Marinaccio (Presidente, Mercatino srl), Alessandro Andreanelli (Amministratore Delegato, Lush Italia srl), Antonio Ferro (Presidente, Extra srl), Angelo Bruscino (Socio, Ambiente spa), Massimo Pasquini (Amministratore Delegato, Lucart spa), Marco Steardo (Amministratore Delegato, Sersys Ambiente srl), Roberto Magnaghi (Managing Director, Interseroh), Ombretta Sarassi (Direttore Generale, Opem), Diego Pavan (Amministratore Delegato, EDILVI spa), Francesca Tramonto (Amministratore Unico, Tramonto Antonio srl).

Spreco alimentare, il ruolo chiave delle città

Un nuovo studio realizzato con la collaborazione della Fondazione CMCC mette in luce il ruolo decisivo delle città nella lotta agli sprechi alimentari e nel contribuire a raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile. Un metodo per valutare le politiche e le iniziative sullo spreco alimentare urbano e le loro connessioni con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, potenzialmente applicabile a qualsiasi altra città.

Lo spreco alimentare è uno dei problemi più urgenti legato alla produzione del cibo: l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) stima che più di un terzo del cibo sia perso o sprecato lungo l’intera catena di produzione del cibo. Se si considerano gli impatti sull’ambiente, lo spreco alimentare rappresenta fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, mentre l’impronta idrica annuale della fase agricola dello spreco alimentare è di 250 Km3, pari a cinque volte il volume del lago di Garda e più alta di qualsiasi impronta idrica nazionale legata ai consumi alimentari. Il rapporto Speciale dell’IPCC Climate Change and Land (2018) stima che fino al 37% delle emissioni globali totali siano attribuibili al sistema alimentare considerato nel suo complesso, dalla produzione fino al consumo e allo spreco. In Europa, con 88 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anni (pari a 173 kg a testa) si stima inoltre che il 15% degli impatti totali sull’ambiente della catena di produzione del cibo siano attribuibili proprio agli sprechi alimentari.

Le città si stanno affermando come attori chiave nella lotta allo spreco alimentare: qui si concentra ormai oltre la metà della popolazione mondiale (occupano oggi circa il 3% della superficie terrestre – per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione urbana ha superato quella rurale -) e viene consumato tra il 70% e l’80% delle risorse alimentari prodotte, ed è sempre qui che si stanno sperimentando tutta una serie di azioni per rendere più sostenibile il sistema alimentare.
Prendendo in esame 40 città europee in 16 diversi Paesi, uno studio pubblicato di recente sulla rivista Resources – Special issue Food Loss and Waste: The Challenge of a Sustainable Management through a Circular Economy Perspective presenta una nuova metodologia per valutare le politiche e le iniziative delle città per la lotta allo spreco alimentare.

“Il problema dello spreco alimentare è riconosciuto come una delle più gravi distorsioni dell’attuale sistema di produzione del cibo”, spiega Marta Antonelli, senior scientist presso la Fondazione CMCC e Direttore Ricerca di Fondazione Barilla. “Parliamo di distorsione perché, a fronte di una perfetta edibilità del cibo, si osservano spesso perdite (nelle prime fasi della filiera alimentare, nel tragitto tra il campo e la vendita al dettaglio -esclusa-), oppure sprechi (nelle ultime, a livello di vendita al dettaglio e di consumo), con significativi impatti a livello economico, sociale e ambientale. Anche senza considerare l’emergenza COVID-19, che ha ulteriormente aggravato la situazione, ogni anno il 14% circa dei prodotti alimentari va perso in tutto il mondo prima di raggiungere il mercato; i motivi sono molteplici, e spaziano da problemi alle infrastrutture, vizi di manipolazione, inadeguatezza delle modalità di trasporto, condizioni meteorologiche estreme, fino a problemi nello stoccaggio e conservazione dei prodotti, che colpiscono soprattutto i cibi più deperibili, come frutta e verdura. Per quanto riguarda invece lo spreco ‘a valle’, imputabile ai consumatori o agli addetti al servizio della ristorazione, le ragioni sono soprattutto di tipo comportamentale e hanno a che fare con la particolare relazione che abbiamo col cibo.”
In un mondo dove ancora oggi la sicurezza alimentare non è garantita per tutti, se si riducessero le perdite o gli sprechi alimentari si potrebbe garantire più cibo per tutti, ridurre le emissioni di gas serra e allentare la pressione sulle risorse naturali, in particolare il consumo di acqua e di suolo, per aumentare la crescita economica e la sostenibilità dei nostri sistemi di produzione e delle nostre società.

“La gestione dello spreco alimentare è una sfida complessa”, spiega Marta Antonelli, “e le città possono andare a incidere direttamente su tanti settori o elementi del sistema alimentare urbano, che poi determinano le dimensioni della sicurezza alimentare per i cittadini. Come? Attraverso l’azione sui mercati rionali, le mense scolastiche, le mense caritatevoli, gli incentivi per ridurre gli sprechi, etc. La città di Milano, per esempio, ha ridotto la tassa sui rifiuti a chi dimezzava i propri livelli di spreco alimentare, e si è impegnata con tutta una serie di azioni, fra cui questo tipo di incentivi, a dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030.”
Attraverso un’analisi della letteratura del settore, gli autori dello studio hanno cercato di delineare una mappa di quelle che sono le iniziative a livello urbano per la lotta allo spreco alimentare. Sono inoltre andati a vedere quale fosse la loro relazione con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, evidenziando il ruolo fondamentale che le città possono avere per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Lo studio ha evidenziato la grande molteplicità di politiche e di attori coinvolti nella lotta allo spreco alimentare, uno specchio interessante, più in generale, delle azioni sul sistema alimentare: molte delle politiche implementate sono finalizzate a fornire informazioni corrette ai cittadini e ad accrescere la loro consapevolezza (campagne e azioni di sensibilizzazione), altre sono politiche basate su strumenti del mercato, come ad esempio incentivi fiscali, o politiche regolatorie, che stabiliscono degli obiettivi da raggiungere. Ci sono poi le cosiddette iniziative di nudging, interventi che vogliono andare, in maniera non coercitiva, a influenzare l’adozione di determinati comportamenti ritenuti di valore positivo per la società.
L’analisi mette in luce anche come molte città (in Italia, Bari, Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia e Cremona, con iniziative sia pubbliche che private) stiano utilizzando la lotta allo spreco per andare ad alleviare la povertà alimentare e l’esclusione sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione, per esempio attraverso sistemi di donazione delle eccedenze di cibo, o la creazione di nuove opportunità di lavoro nell’economia circolare.
“La lotta allo spreco alimentare è una di quelle azioni che definiscono un sistema alimentare urbano integrato”, sottolinea Marta Antonelli. “Se andassimo a vedere le azioni che i diversi comuni italiani hanno intrapreso sul sistema alimentare, vedremmo che le azioni sono molteplici; quello che è ancora raro, è avere una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto, in maniera integrata, multisettoriale, e di conseguenza anche multi-attoriale. In molte città si assiste adesso alla nascita di nuovi organismi di supporto, i cosiddetti “Food Policy Council”, esperienze partecipative, bottom up e multi-attoriali, che hanno avuto un ruolo importante anche nel creare quelle reti di advocacy che hanno richiesto al sistema istituzionale locale un approccio al cibo diverso, più sostenibile e integrato.”
Lo studio sottolinea l’importanza di fornire alle istituzioni cittadine strumenti efficaci per raccogliere dati sui livelli di spreco alimentare urbano, per valutare anche quantitativamente l’entità del problema e l’efficacia delle politiche messe in atto. Al momento, le lacune in fatto di metriche e dati sono notevoli.

“È essenziale infine”, conclude Marta Antonelli, “che le politiche messe in campo dalle città per la lotta allo spreco alimentare siano in linea con gli obiettivi definiti dall’Agenda 2030. Nel nostro studio, abbiamo visto che i legami con gli obiettivi di sviluppo sostenibile erano molteplici, ma che solo in pochissimi casi (Cremona, Liège, Milano e Montpellier) il riferimento era esplicito e diretto. Raramente le città usano gli obiettivi di sviluppo sostenibile come cornice politica di riferimento, e questo rende difficile una valutazione dell’impatto dei loro interventi sull’agenda della sostenibilità. Le città sono attive in tanti ambiti diversi del sistema alimentare, ma spesso manca una visione integrata, che metta in luce il fatto che se agisco sullo spreco alimentare posso anche indirizzare e intercettare altri obiettivi, come quelli di produzione agricola, attraverso una gestione circolare, o lavorare sull’esclusione socio-economica e sulla povertà alimentare. In questo senso la strategia ‘Farm to Fork’ rappresenta il primo passo a livello europeo e internazionale per mettere sullo stesso piano aspetti del sistema alimentare che finora erano sempre stati trattati separatamente, partendo per esempio dal mettere sullo stesso piano salute umana e sostenibilità.”

L’analisi descritta nello studio potrà essere facilmente replicata e applicata ad altri contesti, anche non europei, e in futuro potrebbe essere utilizzata dalle città di quei Paesi in via di sviluppo che stanno iniziando adesso ad affrontare simili sfide.

Leggi la versione integrale dello studio:
Urban Food Waste: A Framework to Analyse Policies and Initiatives
Fattibene D., Recanati F., Dembska K., Antonelli M., 2020, Resources – Special Issue Food Loss and Waste: The Challenge of a Sustainable Management through a Circular Economy Perspective) 9(9), 99; https://doi.org/10.3390/resources9090099

Figura 2: Applicazione del metodo all’analisi delle 40 città europee leader nelle iniziative per la lotta allo spreco alimentare. I tre assi orizzontali rappresentano i tre pilastri fondamentali della metodologia, mentre le linee il legame fra specifici elementi dei diversi pilastri. (abbreviazioni: integr. manag. = integrated management; empl. = employment; fiscal incent. = fiscal incentives; waste manag. = waste management; farm./prod. = farmers-producers; enab. = enablers; trasp. comp. = transportation company).

Comunicato stampa Fondazione CMCC

CONTATTI STAMPA:

Mauro Buonocore – CMCC – mauro.buonocore@cmcc.it

tel. +39 0832 671060 – mob. +39 345 3033512

Laura Caciagli – CMCC – laura.caciagli@cmcc.it
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Rifiuti ed Economica Circolare: cosa cambia e cosa viene confermato dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 3 settembre 2020, n. 116

“Con questo pacchetto l’Europa punta con decisione a uno sviluppo economico e sociale sostenibile, in grado di integrare finalmente politiche industriali e tutela ambientale”. Queste furono le parole che l’onorevole Simona Bonafè – eurodeputata e relatrice del pacchetto di economia circolare – pronunciò nel maggio 2018 quando il piano d’azione sull’economia circolare fu adottato dal Parlamento europeo dopo 28 intensi mesi di discussioni e confronti. Due anni dopo, il 3 settembre 2020, l’Italia ha ufficialmente recepito le suddette Direttive europee modificando in maniera sostanziale alcuni aspetti della gestione dei rifiuti nel nostro Paese.

Prima di vedere quali sono state le modifiche principali introdotte dal “pacchetto” torniamo al maggio 2018: l’Unione Europea aveva pubblicato quattro importanti Direttive (n. 849/2018/Ue, 850/2018/Ue, 851/2018/Ue e 852/2018/Ue) che, modificando le precedenti normative europee in tema di rifiuti di imballaggio, discariche, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche RAEE, veicoli fuori uso e rifiuti di pile e accumulatori, fissavano nuovi ambiziosi obbiettivi di riciclaggio. Nello specifico puntavano a riciclare almeno il 55% dei rifiuti urbani dei singoli Stati membri entro il 2025 (per poi arrivare al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035) frenando contemporaneamente lo smaltimento dei rifiuti in discarica (massimo 10% entro il 2035). In aggiunta, il pacchetto di economia circolare poneva l’altro importante obbiettivo di fare in modo che il 65% degli imballaggi venisse riciclato entro il 2025 e il 70% entro il 2030.

Come detto l’Italia ha recepito le suddette Direttive lo scorso settembre attraverso quattro Decreti Legislativi che molti esperti ritengono abbiano rivoluzionato l’attuale sistema di gestione dei rifiuti, poiché hanno modificato alcuni importanti articoli del “Testo unico ambientale” (D.Lgs. 152/2006 parte IV).

I Decreti in questione sono il: 

In questo articolo ci focalizzeremo sulle principali novità introdotte dal D.Lgs. n.116 (entrato in vigore il 26 settembre 2020) e sulle disposizioni già in essere e confermate anche da quest’ultima normativa. La nostra analisi ha lo scopo di presentare brevemente gli aspetti principali del decreto, ma per un maggior approfondimento rimandiamo al decreto.

Viene confermato l’obbligo del produttore o altro detentore di rifiuti di provvedere in modo diretto al trattamento dei rifiuti o di affidarli ad una figura terza (intermediario e commerciante iscritti alla categoria 8 dell’Albo Gestori Ambientali) che effettui le operazioni di raccolta, trasporto e trattamento. A tal proposito tutti i soggetti che effettuano il trasporto professionale di rifiuti dovranno essere regolarmente iscritti all’Albo Gestori Ambientali nell’apposita Categoria di appartenenza e dovranno conferire i rifiuti trasportati solo ad impianti a loro volta autorizzati dall’autorità competente.

Resta vigente la responsabilità di controllo della filiera ossia: conferimento del rifiuto al servizio pubblico o ricezione della quarta copia del formulario di identificazione del rifiuto controfirmata e datata dal destinatario entro 3 mesi dalla data del conferimento al trasportatore, ovvero in caso contrario abbia provveduto a darne comunicazione alle autorità competenti. In caso di spedizioni transfrontaliere tali tempistiche sono prolungate a sei mesi.

Ciò detto, riepiloghiamo brevemente i tre tipi principali strumenti documentali di gestione dei rifiuti speciali e analizziamo alcune novità introdotte dai nuovi Decreti.

Registro di carico e scarico dei rifiuti: è lo strumento che rappresenta la base documentale della tracciabilità dei rifiuti in quanto in esso devono essere riportati tutti i carichi e gli scarichi dei rifiuti effettuati. Rispetto alla precedente disciplina, si evidenzia che fino all’attuazione del nuovo sistema di tracciabilità previsto all’art. 188-bis, l’obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti, il cui tempo di conservazione è passato da cinque a tre anni, rimane invariato per tutti i soggetti precedentemente obbligati, ma vengono esclusi i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che non hanno più di 10 dipendenti.

Formulario di identificazione dei rifiuti (FIR), è il documento che deve accompagnare il rifiuto dal momento in cui esso esce dall’unità produttiva in cui è stato prodotto, fino alla consegna al destinatario. Si compone di quattro copie le quali devono essere compilate, datate e firmate dal produttore e controfirmate dal trasportatore. La prima di queste quattro copie deve rimanere al produttore mentre le altre tre copie devono essere acquisite una dal destinatario e due al trasportatore, il quale provvederà ad inviare al produttore la quarta copia in cui deve essere compilata la parte in cui si conferma la ricezione del rifiuto presso il destinatario ed il peso verificato a destino. Una novità introdotta prevede che in caso di conferimento di rifiuti a terzi, autorizzati ad operazioni di raggruppamento, ricondizionamento e deposito preliminare (D13, D14, D15) occorre la ricezione sia della quarta copia del FIR, sia di una attestazione di avvenuto smaltimento resa ai sensi del DPR n. 445/2000. Tale attestazione deve essere fornita e sottoscritta dal titolare dell’impianto di trattamento finale e deve contenere, oltre alle informazioni generali del titolare e dell’impianto, anche il tipo di operazione di smaltimento a cui è stato sottoposto il rifiuto. Modello di attestazione, tempi entro cui debba essere implementata e modalità di invio sono ancora in via di definizione.

Modello unico di dichiarazione ambientale (MUD), consiste sostanzialmente nella comunicazione che alcune aziende devono presentare ogni anno, indicando quanti e quali rifiuti hanno prodotto durante il corso dell’anno precedente. Le aziende soggette a MUD, in linea di massima, sono quelle che hanno avuto più di 10 dipendenti nell’anno di riferimento, o che hanno prodotto dei rifiuti pericolosi. Il MUD potrebbe scomparire o comunque dovrà interfacciarsi con un nuovo sistema di tracciabilità informatico che tanto ricorda il SISTRI.

Di fatto, un’altra novità di rilievo, introdotta dall’articolo 188-bis, riguarda il sistema di tracciabilità dei rifiuti che si compone delle procedure e degli strumenti di tracciabilità dei rifiuti integrati nel Registro elettronico nazionale (RENTRI) per la tracciabilità dei rifiuti istituito ai sensi dell’articolo 6 del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, gestito direttamente dall’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali.

Il RENTRI permetterà inoltre di gestire l’attestazione di avvenuto smaltimento dei rifiuti e anche il loro recupero. Fino all’entrata in vigore del RENTRI è richiesta solo l’attestazione di avvenuto smaltimento per le operazioni D13, D14 e D15; dopo l’entrata in vigore del RENTRI sarà richiesta anche per le attività di recupero di cui alla voce R12 ed R13.

Il RENTRI sarà uno strumento accessibile agli organi di controllo e consentirà di attribuire le responsabilità anche all’intermediario. Come detto, per la comunicazione MUD e per la gestione digitale delle spedizioni transfrontaliere, RENTRI dovrà interfacciarsi con ISPRA.

Con l’introduzione del RENTRI viene definitivamente abrogato l’articolo 188-ter che riguardava il precedente, poco rimpianto, sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI).

Oltre ai sopra descritti obblighi documentali, il nuovo decreto pone l’attenzione sulle regole base per una corretta gestione dei rifiuti a cominciare dall’identificazione dei codici CER fino alla gestione del deposito temporaneo. A tal proposito è stato inserito l’art. 185-bis che modifica il nome del “deposito temporaneo” in “deposito temporaneo prima della raccolta” e lo definisce come “il raggruppamento dei rifiuti ai fini del trasporto degli stessi in un impianto di recupero o smaltimento, prima della raccolta”.

Dovrà rispettare le seguenti condizioni:

  • deve essere effettuato nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti, cioè l’area in cui si svolge l’attività che ha generato la produzione dei rifiuti, o per le imprese agricole, di cui all’articolo 2135 del codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci;
  • esclusivamente per i rifiuti soggetti a responsabilità estesa del produttore, anche di tipo volontario, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato dai distributori presso i locali del proprio punto vendita;
  • per i rifiuti da costruzione e demolizione, nonché per le filiere di rifiuti per le quali vi sia una specifica disposizione di legge, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato presso le aree di pertinenza dei punti di vendita dei relativi prodotti;
  • deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti che non possono essere miscelati in uno stesso contenitore.

Come detto, quelle riportate in questo articolo sono alcune delle più rilevanti modifiche apportate dal D.Lgs. n.116/2020 in tema di gestione dei rifiuti. Ulteriori approfondimenti sulle specifiche tematiche verranno trattate nei prossimi articoli.

Redazione Osservatorio HSE

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Rifiuti e clima, arriva la prima tariffa calcolata in base alla CO2 prodotta

Dimmi quanti rifiuti produci e ti dirò quanta CO2 emetti. In arrivo la prima tariffa rifiuti calcolata in base all’impatto dei cittadini sul clima

La rivoluzione lanciata da un piccolo Comune marchigiano, Terre Roveresche, che per la prima volta in Italia premierà i cittadini che producono meno rifiuti e differenziano meglio, facendoli pagare in base alla quantità di CO2 prodotta. L’iniziativa arriva al termine di un progetto pilota denominato Carbon WastePrint, condotto col supporto dell’app utility per la raccolta differenziata Junker.

C’è un sottile filo rosso che lega l’aumento del livello del mare e la “febbre” del pianeta ai bidoni di casa nostra. E questo filo è l’effetto serra. Il processo di gestione dei rifiuti, infatti, contribuisce in modo rilevante ai cambiamenti climatici. Partendo da questa consapevolezza, il Comune di Terre Roveresche – 5mila anime nella provincia di Pesaro Urbino – ha approvato un nuovo regolamento per la Tassa Rifiuti che non solo premia i comportamenti virtuosi dei cittadini attraverso il sistema puntuale, ma per la prima volta in Italia tiene conto, nel calcolo della tariffa, anche della quantità di CO2 prodotta da ogni singola utenza.

La rivoluzione, che partirà ufficialmente il primo giorno del 2021, arriva al termine di un progetto pilota denominato Carbon WastePrint e coordinato dall’ingegnere Andrea Valentini dello studio associato Waste Lab e da Luca Belfiore di Altraleonia Srl. Si tratta del primo modello certificato che permette di monitorare le azioni dei cittadini rappresentandole attraverso un unico valore ambientale: la CO2 prodotta o evitata. Fondamentale, per la gestione operativa del progetto, il supporto innovativo di Junker, l’app utility smart per la raccolta differenziata più usata dagli italiani, che ha reso possibile il coinvolgimento, diretto e interattivo, della cittadinanza in tutte le fasi della sperimentazione.

MENO RIFIUTI E PIU’ DIFFERENZIATA GRAZIE ALL’APP JUNKER

Grazie a Junker le famiglie hanno imparato a ridurre e differenziare di più e meglio i propri rifiuti: in caso di dubbi, basta infatti inquadrare il codice a barre o, se si tratta di un prodotto sfuso, scattare una foto all’oggetto, per sapere in tempo reale di quali materiali è composto e in quali bidoni va gettato.

Per motivare i cittadini, Junker app ha inoltre lanciato una vera e propria “sfida” a premi, chiedendo alle utenze di effettuare una separazione dei rifiuti particolarmente attenta e di comunicare per tempo la necessità (o meno) di ritiro dei propri rifiuti nel rispetto del calendario delle raccolte, permettendo di ridurre le emissioni di CO2 derivanti dal trasporto. Queste iniziative, insieme ai dati raccolti, hanno consentito di validare il modello in base alla metodologia certificata “Carbon WastePrint”.

“Aver contribuito al successo della sperimentazione del modello CWP nel ruolo di strumento abilitante al servizio delle utenze – sottolinea la responsabile progetti di Junker app, Benedetta De Santis – ha dato pieno significato alla mission di Junker come motore di economia circolare in materia di raccolta differenziata. Siamo quindi fieri del risultato raggiunto e pronti ad offrire in permanenza queste funzioni innovative, validate grazie all’entusiastica partecipazione dei cittadini”.

DIMMI QUANTI RIFIUTI PRODUCI E TI DIRO’ QUANTA CO2 EMETTI

Adesso si passa alla fase operativa. Dal 1 gennaio 2021, tutte le famiglie di Terre Roveresche pagheranno una tariffa sui rifiuti che tiene conto della CO2 equivalente prodotta ed è calcolata non solo in base a quanto hanno differenziato le varie frazioni, ma anche in base a quanto hanno ridotto la produzione di rifiuti in totale, in particolare quelli indifferenziati. Grazie alla distribuzione di bidoncini dotati di tag RFID, sarà possibile contabilizzare ogni conferimento per ogni singola tipologia di rifiuto. A quel punto basterà moltiplicare queste quantità per opportuni fattori di emissione, per determinare la produzione di CO2 equivalente associata ad ogni utenza. Ossia il suo impatto ambientale.

UN MOTORE DI ECONOMIA CIRCOLARE

“Grazie a questo metodo – spiega Andrea Valentini – anche le buone pratiche legate al mondo del riuso o contro lo spreco alimentare troveranno soddisfazione economica nel computo della tariffa. Ma, soprattutto, gli utenti avranno immediata consapevolezza di quale azione, nella propria gestione dei rifiuti, comporti minori impatti ambientali e quindi maggiori vantaggi economici, incentivando così un miglioramento continuo dei propri comportamenti, che è lo spirito stesso dell’economia circolare”. Non solo. Questo sistema permette di adeguarsi anche a situazioni di emergenza o imprevedibili. “Per fare un esempio molto attuale – chiarisce Luca Belfiore – le utenze commerciali in difficoltà economica, a causa di una riduzione dell’attività o di chiusure temporanee, vedranno la tassa rifiuti ridursi a seguito dei minori conferimenti”.

MENO CO2 E PIU’ RISPARMI PER I CITTADINI

Nella sola fase di sperimentazione, nel 2019, a Terre Roveresche è stata certificata una riduzione di 2.352 tonnellate di CO2 derivanti dalla gestione dei rifiuti. Parallelamente, l’attivazione di processi virtuosi ha permesso al Comune di risparmiare 15mila euro nel costo del sistema rifiuti, soldi che saranno restituiti entro la fine dell’anno ai cittadini più meritevoli. Sulla base di questi risultati, è facile prevedere che l’introduzione del nuovo regolamento consentirà di abbattere ulteriormente l’emissione di gas climalteranti e ridurre ai cittadini il peso della bolletta.

Il pianeta ringrazia, il portafoglio pure.

Per info

www.junkerapp.it

www.carbonwasteprint.it

Ambra Murè 

Ufficio Stampa 

Giunko srl 

Mob: +39 338 8226104

Mascherine e dispositivi di protezione individuale per proteggersi dal Coronavirus

La pandemia da coronavirus ha scatenato una nuova corsa all’oro: quella alle mascherine. Fino a poche settimane fa le mascherine erano un semplice strumento di lavoro, previste in un limitato numero di attività professionali e, in alcuni casi, osteggiate dai lavoratori quando venivano imposte a tutela della loro salute. Ora sono letteralmente sulla bocca di tutti (o quasi) e sono state oggetto di svariate notizie. Abbiamo visto rappresentanti istituzionali e tecnici indossarle in maniera errata, sappiamo di gente che le riutilizza per giorni senza considerare che molte tipologie sono monouso, leggiamo di metodi casalinghi per sanitizzarle e di persone senza scrupolo che le rubano per poi rivenderle. Abbiamo assistito addirittura a Stati che hanno bloccato o vietato la vendita di mascherine ad altre nazioni. Tante notizie ma anche tanta confusione e disinformazione in materia, così abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza basandoci sulle competenze di chi lavora nel campo della salute e sicurezza sul lavoro.

Mascherine o Dispositivi di Protezione Individuali?

Il primo chiarimento va dato in merito alla differenza tra le mascherine e i dispositivi di protezione individuali (DPI). Le mascherine sono quelle “da chirurgo”, solitamente monouso, che fungono da barriera fisica abbastanza limitata e più che altro fanno in modo che chi le indossa eviti di emettere particelle di saliva o starnuto all’esterno. In sostanza, proteggono gli altri più che il proprio utilizzatore.

I DPI sono invece dei veri e propri strumenti di protezione per chi li indossa, e ce ne sono di tantissimi tipi, distinti sulla base del loro potere filtrante. In questi giorni si sente molto parlare delle tipologie FFP1, FFP2 e FFP3: si tratta di una certificazione riconosciuta a livello europeo per classificare le maschere in base al loro potere protettivo e, semplificando, possiamo dire che le FFP1 filtrano circa il 78% delle particelle di polveri, fumo e aerosol esterno mentre le FFP2 filtrano circa il 92-95%. Le FFP3 hanno un potere filtrante maggiore, quasi del 100%.

FFP sta per “filtering face piece” e le tipologie 2 e 3 sono considerate le più efficaci nel contrasto al coronavirus. È bene però verificare se quelle acquistate o in proprio possesso sono considerate monouso (garantite cioè per 8 ore di attività continua) oppure se possono essere utilizzate più volte fino a esaurimento del potere filtrante. Le indicazioni si trovano sulle schede tecniche delle maschere e nelle informazioni presenti sulla confezione. Se vengono riportate le lettere “NR” significa che non sono riutilizzabili. C’è anche un altro aspetto da considerare: alcune di queste mascherine presentano una valvola che ha la funzione di permettere una migliore respirazione dell’utilizzatore. Questa valvola però riduce il contenimento delle particelle emesse dall’utilizzatore per cui protegge maggiormente chi utilizza la maschera rispetto agli esterni.

In sintesi: se tutti usassimo le mascherine chirurgiche limiteremmo notevolmente il rischio di contagio, tecnicamente però le migliori sono quelle classificate FFP2 e FFP3 senza valvola perchè garantiscono una efficace protezione sia per l’utilizzatore che per gli esterni. Negli Stati Uniti viene utilizzano un sistema diverso di classificazione: il NIOSH, che presenta dieci categorie diverse. In questo caso la corrispondenza con il sistema europeo si può semplificare considerando che una maschera classificata NIOSH N95 è paragonabile ad una FFP2 dato che ha un potere filtrante del 95%.

Misure di sanitizzazione

Esistono misure di sanitizzazione dei suddetti DPI ma sono tecniche che devono essere compiute da personale formato e per essere valide deve essere rilasciata una certificazione che confermi la corretta esecuzione dell’attività. In sostanza possono farlo solo alcuni soggetti professionalmente autorizzati. Metodi casalinghi basati sull’uso di alcol non sono verificabili né certificabili per cui non si possono considerare efficaci.

Mascherine non certificate CE e Decreto “Cura Italia”

In questo momento di emergenza lo Stato italiano ha emanato il DL n.18 del 17 marzo 2020 – meglio conosciuto come decreto “Cura Italia” – che, tra le varie disposizioni, consente ai datori di lavoro di fornire al personale anche le mascherine chirurgiche prive di marchio CE, facendole di fatto rientrare nell’elenco dei DPI utilizzabili per lavorare. Ad oggi tale disposizione, in linea con la Raccomandazione UE n° 2020/403 della Commissione Europa, è valida fino al termine dello stato di emergenza fissato dal Governo italiano al 31 luglio 2020. È però compito del datore di lavoro chiedere ai fornitori di mascherine o altri DPI non certificati la dimostrazione oggettiva dell’applicazione da parte loro dell’art. 15 del decreto “Cura Italia”. Tale articolo consente infatti di produrre, importare e immettere in commercio mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuali in deroga alle vigenti disposizioni, se i produttori hanno inviato all’Istituto Superiore di Sanità (per le mascherine chirurgiche) o all’INAIL (per i DPI) un’autocertificazione nella quale attestano le caratteristiche tecniche degli articoli e il rispetto dei requisiti di sicurezza. In aggiunta, dopo il terzo giorno dall’invio dell’autocertificazione, i produttori devono aver trasmesso ai competenti istituti ogni elemento utile alla validazione delle mascherine o dei DPI e possono cominciare la distribuzione e vendita solo a seguito dell’esito della valutazione circa la rispondenza alle normative vigenti, effettuata dall’istituto competente.

Ma quando vanno usate le mascherine?

Innanzitutto è bene ricordare che lo scorso 14 marzo i sindacati e il Governo hanno stabilito il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, in cui sono indicate tutte le disposizioni che le aziende (quelle autorizzate a continuare l’attività lavorativa) devono rispettare pena l’arresto immediato dell’attività. Tra le misure più importanti c’è quella di rispettare la distanza di sicurezza, vale a dire che ogni lavoratore deve rimanere distante almeno 1 metro da ogni altro collega per tutta la durata dell’attività lavorativa. Se tale distanza viene rispettata non è obbligatorio dotare i lavoratori di mascherine o DPI. Al contrario, se tale distanza non può essere garantita i lavoratori possono lavorare solo se viene loro fornito un’idonea maschera. Di recente il protocollo è stato aggiornato e integrato in vista della “fase 2” che è partita il 4 maggio e che riguarda l’avvio di un maggior numero di attività produttive.

Le novità introdotte in merito all’uso delle mascherine sono:

  1. il fatto che viene dato mandato alle singole aziende di stabilire l’uso dei dispositivi di protezione individuale da adottare sulla base della specifica valutazione dei rischi;
  2. l’uso delle mascherine nei casi in cui i lavoratori condividano spazi comuni. Tutto questo se il mercato lo consente, infatti, nella premessa del relativo paragrafo si legge che l’adozione delle misure di igiene e dei dispositivi di protezione individuali (…) è evidentemente legata alla disponibilità in commercio.

Fuori dall’ambiente lavorativo alcune Regioni, ad esempio Lombardia e Toscana, hanno imposto l’uso delle mascherine a tutte le persone che per motivi di necessità escono da casa ed è probabile che anche altri governi regionali faranno lo stesso. A parte questi territori e al di là dei “luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuativamente il mantenimento della distanza di sicurezza” (DPCM 26 aprile 2020), non c’è obbligo di usare la mascherina a meno che non si è tra le persone contagiate dal coronavirus”

È bene segnalare che le suddette disposizioni potrebbero essere soggette a cambiamenti nelle prossime settimane. Proprio in questi giorni l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sta valutando un nuovo studio del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston secondo cui le goccioline emesse con un colpo di tosse o uno starnuto possono volare nell’aria per distanze ben più ampie di un metro. Se lo studio verrà confermato potrebbero essere riviste a livello mondiale le raccomandazioni sull’uso delle mascherine.

Conviene perciò rimanere aggiornati sugli sviluppi consultando sempre organi d’informazione autorevoli e facendo attenzione a non incappare in una delle tante fake news che circolano in questi giorni.

Andrea Merusi

Articolo pubblicato sulla rivista “PuntoSicuro” – 12/05/2020

Clicca qui per scaricare l’articolo in pdf.

Approfondimento: l’infezione da coronavirus sul lavoro è da considerarsi infortunio sul lavoro?

Le ultime disposizioni legislative hanno equiparato l’infezione da coronavirus, contratta in occasione di lavoro, ad infortunio sul lavoro per causa virulenta, prevedendo l’accesso dell’infortunato alla tutela INAIL (Decreto Cura Italia del 17 marzo 2020, art. 42, co. 2). Ad oggi l’ambito di tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, ma anche altre categorie che operano in costante contatto con l’utenza, come i lavoratori impiegati in front-office e alla cassa, gli addetti alle vendite/banconisti, il personale non sanitario degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, e gli operatori del trasporto infermi.

Questa disposizione lascia tuttavia presagire l’emersione di possibili futuri contenziosi volti a far valere rivendicazioni nei confronti di aziende operanti nei più svariati settori, che abbiano omesso di prevenire il rischio in maniera compiuta. In buona sostanza, potremmo trovarci un domani a dover gestire situazioni risarcitorie o contenziosi di lavoratori a cui è stato chiesto di continuare a lavorare e che potrebbero accampare il fatto di aver contratto il virus in ambito lavorativo.

Pertanto, per una migliore tutela processuale dell’azienda stessa oltre che per una migliore protezione dei lavoratori, l’invito è di rispettare in maniera scrupolosa il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo 2020, e in particolare, si suggerisce di:

  • estrapolare da questo protocollo delle procedure operative di gestione dell’emergenza specifiche per la propria attività (che potrebbero costituire un addendum del nostro DVR o Sistema di Gestione): questo significa dichiarare e specificare in corrispondenza di ciascun punto contenuto nel protocollo cosa l’azienda ha fatto o deciso di fare;
  • documentare tutte le scelte adottate oggi e che potremmo trovarci a giustificare in futuro, relative per esempio ai DPI adottati e consegnati ai lavoratori (se non ho disponibilità di FFP2 o FFP3 conservare le pezze giustificative dei fornitori), alle procedure e modalità di sanificazione degli ambienti di lavoro e dei punti di maggior contatto (da farsi giornalmente e che ricordo essere pre-requisito essenziale per la prosecuzione delle attività), alle misure generali adottate per evitare il contagio (es. contingentare gli spostamenti interni del personale, prediligere i turni fissi in modo da evitare la cross contamination tra i lavoratori, ecc.).

Nel caso riteneste opportuno un sopralluogo di un nostro esperto per la verifica delle procedure adottate contattateci attraverso la sezione “contatti”.

Paolo Amandi

RSPP e Consulente Sicurezza e Salute sul lavoro

 

Rinvio scadenza presentazione Modello Unico di Dichiarazione ambientale (MUD)

Il Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18, pubblicato sulla G.U. del 17 marzo 2020, prevede il rinvio della presentazione di diverse comunicazioni in campo ambientale.

L’art. 113 (Rinvio di scadenze adempimenti relativi a comunicazioni sui rifiuti) stabilisce che sono prorogati al 30 giugno 2020 i termini di:

a) presentazione del modello unico di dichiarazione ambientale (MUD) di cui all’articolo 6, comma 2, della legge 25 gennaio 1994, n. 70;

b) presentazione della comunicazione annuale dei dati relativi alle pile e accumulatori immessi sul mercato nazionale nell’anno precedente, di cui all’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, nonché trasmissione dei dati relativi alla raccolta ed al riciclaggio dei rifiuti di pile ed accumulatori portatili, industriali e per veicoli ai sensi dell’articolo 17, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188;

c) presentazione al Centro di Coordinamento RAEE della comunicazione di cui all’articolo 33, comma 2, del decreto legislativo n. 14 marzo 2014, n. 49;

d) versamento del diritto annuale di iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali di cui all’articolo 24, comma 4, del decreto 3 giugno 2014, n. 120.

 

In merito al MUD, nel mese di gennaio 2020 il Ministero dell’Ambiente aveva confermato per il 2020 il modello e le istruzioni per la presentazione del Modello Unico di Dichiarazione ambientale (MUD) dell’anno 2019, che dovrà essere utilizzato per le dichiarazioni da presentare, entro il 30 giugno 2020, con riferimento all’anno 2019.

Rimangono dunque immutati rispetto al 2019:
– struttura del modello, articolato in sei comunicazioni;
– informazioni da trasmettere;
– soggetti obbligati alla presentazione del MUD, definiti dall’articolo 189, comma 3 del D.lgs. 152/2006 ovvero trasportatori, intermediari senza detenzione, recuperatori, smaltitori, produttori di rifiuti pericolosi, produttori di rifiuti non pericolosi da lavorazioni industriali, artigianali e di trattamento delle scorie con più di 10 dipendenti, Comuni;
– modalità di presentazione:
1. le Comunicazioni Rifiuti, RAEE, Imballaggi e Veicoli fuori uso vanno inviate per via telematica tramite il sito www.mudtelematico.it;
2. la Comunicazione rifiuti semplificata va compilata tramite il sito www.mudsemplificato.ecocerved.it e trasmessa via PEC all’indirizzo comunicazionemud@pec.it.

REACH: analisi del Regolamento Europeo n°1907 del 2006

Il Regolamento Europeo n°1907 del 2006, meglio conosciuto come REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemical substances), è la principale normativa di riferimento per la gestione, in territorio europeo, delle sostanze chimiche ritenute pericolose per la salute e l’ambiente. Tale regolamento, oltre ad uniformare i documenti degli stati membri in materia, ha lo scopo di eliminare gradualmente dal commercio tutte le sostanze ritenute pericolose attraverso un meccanismo di notifica, restrizione e autorizzazione all’uso di tali sostanze.

Semplificando possiamo dire che ci sono delle sostanze che a seguito di consultazioni pubbliche e controlli da parte dell’ente europeo preposto, l’ECHA, vengono inserite in un elenco (Allegato XIV) che impone a produttori e commercianti di tali sostanze di richiedere un’apposita autorizzazione per l’utilizzo.

Le sostanze ritenute pericolose, prima di entrare nell’allegato XIV, vengono inserite nella Candidate List. Tale lista è in continuo aggiornamento ed è consultabile dal sito: https://echa.europa.eu/it/candidate-list-table

Periodicamente l’ECHA lancia delle consultazioni pubbliche sulle bozze di raccomandazioni per l’inclusione delle sostanze nell’Allegato XIV.

Le parti interessate possono rispondere alla consultazione e inviare i propri commenti accedendo alla sezione “Dettagli” disponibile per ciascuna sostanza in esame. Sulla base dei commenti ricevuti l’ECHA può modificare la sua bozza di raccomandazione riguardando, ad esempio, le disposizioni in materia di autorizzazione come i termini di scadenza e le condizioni d’uso di ogni sostanza selezionata.

Nuovo Coronavirus (CODIV-19). Cos’è e cosa devono fare le attività produttive

Dal sito del Ministero della Salute si legge che i Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie respiratorie più gravi. Nel dicembre 2019 a Wuhan, Cina, è stato identificato un nuovo ceppo di coronavirus (a cui è stato dato il nome di SARS-CoV-2), precedentemente mai riscontrato nell’uomo; tale virus è il responsabile della malattia ribattezzata COVID-19.

Come altre malattie respiratorie, l’infezione da nuovo Coronavirus può causare sintomi lievi come raffreddore, mal di gola, tosse e febbre, oppure sintomi più severi quali polmonite e difficoltà respiratorie; raramente può essere fatale.

Il nuovo Coronavirus si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata. La via primaria sono le  goccioline del respiro delle persone infette ad esempio tramite:

  • la saliva, tossendo e starnutendo,
  • contatti diretti personali,
  • le mani, ad esempio toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) bocca, naso o occhi.

Normalmente le malattie respiratorie non si trasmettono con gli alimenti, che comunque devono essere manipolati rispettando le buone pratiche igieniche ed evitando il contatto fra alimenti crudi e cotti.

 

Misure previste per le attività produttive

Per quanto riguarda le attività produttive, ai Comuni lombardi considerati “focolai” del virus (Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo, San Fiorano) si applica l’ordinanza firmata il 21 febbraio 2020 dal Ministro della Salute e dal Presidente della Regione Lombardia che impone le seguenti misure obbligatorie:

  • Sospensione di tutte le attività commerciali, ad esclusione di quelle di pubblica utilità.
  • Sospensione delle attività lavorative per le imprese dei comuni sopraindicati, ad esclusione di quelle che erogano servizi essenziali tra cui la zootecnia, e quelle che possono essere svolte al proprio domicilio.
  • Sospensione dello svolgimento delle attività lavorative per i lavoratori residenti nei comuni sopraindicati, anche al di fuori dell’area indicata, ad esclusione di quelli che operano nei servizi essenziali.
  • Interdizione delle fermate dei mezzi pubblici nei comuni sopraindicati.
  • In relazione a quanto sopra, le imprese di tali comuni sono chiamate ad attenersi alle disposizioni dell’Ordinanza, in attesa che dagli organi ufficiali arrivino indicazioni aggiornate anche per quanto riguarda i tempi di vigenza delle stesse.

Per le imprese presenti nei Comuni non interessati dal focolaio non si applicano le suddette misure ma si richiama l’attenzione sul rispetto da parte dei propri collaboratori delle regole comportamentali di igiene: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni a base di alcol; mantenere una certa distanza – almeno un metro – dalle altre persone, in particolare quando tossiscono o starnutiscono o se hanno la febbre; evitare di toccarsi occhi, naso e bocca con le mani se presenti febbre, tosse o difficoltà respiratorie e se si ha viaggiato di recente in Cina o se si è stati in stretto contatto con una persona ritornata dalla Cina.

E’ facoltà delle aziende adottare procedure o protocolli più cautelativi rispetto alla proprie esigenze e attività, come, ad esempio chiedere ai propri fornitori provenienti dai territori maggiormente colpiti dal virus di sospendere consegne per 15 giorni.

 

Va aggiornato il Documento di Valutazione del Rischio?

Qualcuno ha posto il problema se è necessario aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) come previsto dal D.lgs 81/2008. A tal proposito l’Ing Stefano Tarlon di InformARS ricorda che l’art. 271 comma 4 specifica che nelle attività, quali quelle riportate a titolo esemplificativo nell’allegato XLIV, che, pur non comportando la deliberata intenzione di operare con agenti biologici, possono implicare il rischio di esposizioni dei lavoratori agli stessi, il datore di lavoro può prescindere dall’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 273, 274, commi 1 e 2, 275, comma 3, e 279, qualora i risultati della valutazione dimostrano che l’attuazione di tali misure non è necessaria. L’elenco riportato nell’allegato citato presenta tipologie di attività in cui non c’è l’uso deliberato di agenti biologici ma il lavoratore può venire a contatto con essi, quindi se non c’è uso deliberato oppure non si rientra tra le categorie in cui può essere un contatto con agenti biologici il DVR non va aggiornato.

E’ però importante che il Datore di Lavoro, nell’applicazione dei suoi doveri derivanti dall’art. 2087 del codice civile, informi e si attivi con adeguate misure preventive e definisca le regole che i lavoratori devono seguire per limitare il contagio e contenere il rischio. Quindi si ritiene opportuno adottare misure preventive adeguate e dare informazioni corrette ai lavoratori per evitare inutili paure, attenendosi soprattutto alle disposizioni del Ministero della Sanità.

IX rapporto sull’impegno sociale delle aziende in Italia

Il 24 giugno 2020, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, verranno presentati i dati statistici del IX Rapporto sull’impegno sociale delle aziende in Italia.

L’indagine è il punto di riferimento mediatico, istituzionale e accademico per tutti coloro che vogliono capire come cresce il trend della CSR e della sostenibilità nel nostro Paese e chi sono i suoi protagonisti: registra gli investimenti, l’attenzione per i dipendenti, l’ambiente, il risparmio delle risorse, il coinvolgimento degli stakeholders e valorizza le imprese che indirizzano i loro sforzi per diventare “best in class”.

Il Rapporto sull’impegno sociale delle aziende in Italia è redatto dall’Osservatorio Socialis. Per ulteriori informazioni visita il sito: www.osservatoriosocialis.it